martedì 22 gennaio 2008

Radiohead - Ecco perché abbiamo messo il nostro album su internet

LONDRA - Fermate il mondo, voglio scendere. Thom Yorke pretende di fare rock a modo suo, libero dalle regole del mercato e, ora che i Radiohead hanno credibilità da vendere, può permetterselo. Gli dà sui nervi persino che qualcuno abbia preso un aereo per venire a incontrarlo. «Oggi hai scaricato nell’ambiente la tua bella dose di gas inquinanti», dice sfilandosi il bomber rigorosamente no logo (di Martin Margiela, il più invisibile di tutti gli stilisti, uno che invece della griffe usa numeretti). Con la moglie, Rachel Owen, un’insegnante di storia dell’arte esperta di Dante, e i due figli, Noah e Agnes di sei e tre anni, sono venuti fino a Roma in treno per visitare i Musei Vaticani. «Per tutto il viaggio abbiamo parlato di mitologia, poi siamo stati ore lì dentro a leggere antichi documenti», racconta. Un momento di confidenza inusuale, Thom non parla mai della famiglia. Primo ottobre 2007: Jonny Greenwood, sulla homepage dei Radiohead, avverte i fan che il nuovo disco è pronto. «Lo avrete fra dieci giorni», scrive. E il 10 ottobre le dieci canzoni di In Rainbows possono essere scaricate dal sito della band a offerta libera. Scaduto il contratto con la Emi, i Radiohead si affidano alla rete. Il cd esce per un’etichetta indipendente il 28 dicembre, dopo che per due mesi qualsiasi navigatore ha potuto ascoltarlo, scaricarlo, duplicarlo. «Ci abbiamo riflettuto molto prima di fare questo passo», esordisce Thom. «Eravamo tutti d’accordo di dare il disco ai downloaders, ma eravamo perplessi sull’offerta libera. Poi ci siamo detti: è un esperimento, vediamo che succede. Ma l’uscita di un album normale era stata prevista fin dall’inizio. Non tutti scaricano musica da internet, sarebbe stato folle non far uscire il disco». Il motivo principale della decisione? «Le case discografiche ormai da anni pensano solo a breve scadenza, questo ha ucciso l’industria, insieme a una totale mancanza di tolleranza e di rispetto per il lavoro e la crescita dell’artista». Ci tiene a precisare: «Qualcuno ha anche avanzato il dubbio che noi avessimo messo il disco on line perché non eravamo convinti del risultato. Al contrario, In Rainbows è esattamente l’album che volevamo fare». Le lusinghe del successo, il primo posto di Kid A in America, i milioni di copie vendute invece di allentare la tensione hanno inchiodato i Radiohead alle responsabilità. E la vita on the road quando si ha famiglia e si naviga verso gli “anta” diventa sempre più penosa. «Un solista può scegliere i momenti giusti in cui lavorare, ma quando sei in una band devi cercare di andar d’accordo, decidere quando suonare, far combaciare le idee», dice Yorke. «La vita di cinque persone che trascorrono insieme la maggior parte del loro tempo è strana. Non è un lavoro nine to five. È pazzesca, incredibile, ma pure stressante. E devi imporla alla tua famiglia, ai figli: papà non ci sarà per un paio di settimane, ma poi tornerà. C’è stato un momento in cui ho mollato tutto. Ho chiesto a un mio amico che vende immobili di aiutarlo nel suo lavoro, l’ho fatto per due settimane. Grande! Mi è servito a capire che siamo dei privilegiati. Pensa, qualche volta ti trasmettono anche alla radio, mi sono detto. E allora smettiamola di litigare e andiamo avanti». Non sono stati solo i problemi personali a minare l’equilibrio dei Radiohead. Dal 2005, Yorke è portavoce di Friends of the Earth, un acceso fustigatore di tutte le pessime abitudini che mettono a rischio l’ambiente.«La cosa più difficile per chi fa un lavoro come il nostro è essere coerente», incalza. «A volte uno accetta compromessi senza neanche rendersene conto. Anche affrontare lunghi tour è penoso; l’enorme percentuale del nostro “carbon footprint” (misura l’impatto che le attività umane hanno sull’ambiente in termini di biossido di carbonio prodotto) ci ha messo in allarme. Abbiamo fatto studiare a una società di Oxford il consumo energetico e l’emissione di carbonio che un tour può determinare e i risultati sono stati spaventosi. La cosa più inquinante è lo spostamento di pubblico, le diecimila persone che si muovono in auto per venire a un concerto. Come si può ovviare al problema? Ad esempio suonando solo in posti dotati di un efficiente sistema di trasporto pubblico evitando gli eventi che si tengono lontani da tutto e da tutti. Secondo, cerchi di volare il meno possibile, magari vai negli Usa con la Queen Mary anziché in aereo. Terzo, cerchi di convincere la compagnia di trasporti a spegnere i motori dei tir durante il tour, inducendola a usare un generatore che funziona a energia pulita...». Comunque il tour, pur se ridotto, ci sarà. Due le date italiane: a Milano il 17 e 18 giugno. L’anno scorso, quando tutti aspettavano il nuovo disco della band, Yorke se ne uscì con The Eraser, un album come solista. Un gesto che gli servì a riprendersi la sua vita, a recuperare la sua indipendenza artistica. Dice che è stata l’esperienza più noiosa della sua carriera. «Per un po’ non ci siamo visti e ti assicuro che è stato tutt’altro che facile rimettere in moto la macchina. Tutti eravamo rientrati nelle nostre vite, nel nostro mondo. Si trattava non solo di ritrovare il piacere di stare insieme, ma soprattutto di riuscire a produrre qualcosa di valido. In questo senso l’apporto di Nigel Godrich (il produttore della band) è stato essenziale: è stato lui a convincerci dell’onestà di quel che stavamo facendo. C’è una forte carica emotiva in questo disco che non saremmo riusciti a incanalare nel modo giusto senza Nigel». Un’onestà che il pubblico ha premiato. Tutti avrebbero potuto scaricare senza dare un centesimo, invece «il 50% dei downloaders ha pagato una media di sei euro, e questo è un risultato enorme per noi. A chi non ha pagato non ne vogliamo, perché anche loro hanno contribuito a diffondere la nostra musica. Meglio darla gratis alla gente che a quelli che la copiano ufficialmente e la mettono sul mercato riempiendosi le tasche alla faccia degli artisti. Lo sai quanto ci dava la Emi per ogni brano scaricato su iTunes? Zero. Era una voce che sul contratto non esisteva. Copiare la musica non è un fenomeno nuovo. All’epoca del vinile, misero sotto accusa le cassette.Lo slogan era “Copiare i dischi in casa uccide la musica”, eppure la musica non è morta». Merito anche della loro onestà artistica, che in quindici anni ha assunto proporzioni patologiche. «Nella storia dei Radiohead, ogni disco rappresenta un’impresa», conferma. «Per costruire e andare avanti, abbiamo ogni volta demolito tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento. Il processo creativo è sempre stato penoso, tormentato, laborioso». Eppure, dopo Ok Computer, tanti illustri pareri hanno esaltato il falsetto di Yorke, battezzandolo come il più grande crooner del nuovo millennio. Paul McCartney, Beck, Amy Winehouse, Robert Wyatt sono tutti concordi, il futuro del rock deve fare i conti con i Radiohead. «Vorrei che fossero venuti in studio a dircelo, perché è lì che siamo sempre assaliti da mille dubbi, è lì dentro che perdiamo ogni certezza. La stima di Wyatt mi inorgoglisce, ma mi pone di fronte a nuove responsabilità. Il suo Comicopera è il disco migliore che ho ascoltato di recente. È esemplare, esattamente quel che cerchiamo di fare noi». Stringe di nuovo le palpebre, si rabbuia. «Sono uno che pensa troppo. Mi sono sempre chiesto in maniera ossessiva il motivo per cui i Radiohead continuano a esistere come band. La risposta l’ho trovata proprio nelle parole di Wyatt: “Amo alla follia la musica pop. Molti grandi compositori si ispirano al folk, io mi ispiro al pop. Non voglio dire che io sono un grande compositore né che il pop è una forma di folk. Ma di sicuro il pop ha generato un flusso senza fine. Puoi anche costruirti il tuo piccolo stagno, ma se lo stagno non è connesso al fiume, che a sua volta sfocia nell’oceano, prima o poi si asciugherà. Diventerà poco più di una pisciata. E io sono vissuto troppo a lungo per essere felice di una pozzanghera”».
Giuseppe Videtti
da http://xl.repubblica.it/dettaglio/62866

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