sabato 19 gennaio 2008

La Mitchell: «Noi pacifiste ci odiavamo

LONDRA—C’era un ragazzo che come me/ amava la Mitchell e Joan Baez,/ girava il mondo ma poi finì/ a far la guerra nel Kosovo... Si chiamava Bill Clinton. E ci cascò anche lui. Il giorno che si candidò alla presidenza degli Stati Uniti — capelli lunghi non portava più, anche se accanto a sé aveva sempre mille donne— gli chiesero della sua famiglia e poi una curiosità: come mai avesse battezzato sua figlia Chelsea con quello strano toponimo. «Io e Hillary avevamo in mente una canzone di Joni Mitchell», rispose il futuro capo della Casa Bianca. «Ah, Chelsea Morning!», intonarono in coro i giornalisti. Sì, canticchiò lui, proprio quella che fa: «Mi sono svegliata, era una mattina di Chelsea, e la prima cosa che ho trovato / era latte e pane tostato e miele e una ciotola d’arance...».
Il pane e le rose. Ci cascò anche Clinton. Ci sono cascati tutti. Per anni. Quelli che nei concerti si levavano le mutande e nei cannoni mettevano i fiori. Che dipingevano i furgoni di rosa. Che predicavano tanta peace e tantissimo love. Contrordine, figli dei fiori, vi eravate sbagliati: Joni Mitchell non era affatto la folk singer tutta latte e miele che saliva sul palco con l’ukulele. E le femministe pacifiste che cantavano di bastarsi da sole, dalla Joan Baez fidanzata di Bob Dylan alla Janis Joplin fidanzata un po’ di tutti, dietro le quinte erano iene da branco. Invidiose l’una dell’altra, come beghine da mercato. Pronte a tutto, come manager in carriera. Anche a spezzarsi le gambe. «Ci detestavamo », racconta oggi un’ingrigita, sessantaquattrenne Mitchell alla rivista specializzata Mojo: «Ho sempre notato che le donne della canzone non andavano d’accordo, e non so spiegarmene il motivo. Con gli uomini, non ho mai sofferto la stessa competizione ». L’ex cantante di strada, finita nelle antologie di letteratura e ancora imitata da generazioni di cantanti, da Sinead O’Connor a Janet Jackson, ormai preferisce dipingere e stare alla larga da «quel cesso » dell’industria discografica. Ma qualche scheggia di plettro le è rimasta, sotto l’unghia: «Era una rissa continua, fra noi donne. Avevo sempre scontri duri con Laura Nyro. E pure Joan Baez mi avrebbe spezzato le gambe, se avesse potuto ». Invidia, perlopiù: persino Janis Joplin, icona folk bruciata dalla droga, «nei miei confronti era sempre molto competitiva, molto insicura. Lei fu per un anno la regina del rock ’n’ roll. Poi la rivista Rolling Stone decise che la regina ero io. E da quel momento lei prese a odiarmi ». Fate l’amore, ma con rancore. Joni Mitchell che gliele canta a Joan Baez, con rispetto parlando, è Madre Teresa che sparla di Padre Pio. «Flak Music», musica da spari e bang bang, è il nomignolo che i giornalisti di Mojo danno a questa revisione 2008 della filosofia folk music. E gli ideali d’amore universale che Joni scriveva in «Woodstock» o nel «Big yellow taxi», la prima canzone ecologista della storia? E «We shall overcome», l’inno pacifista di Joan? «C’è un luogo comune—non si stupisce troppo l’Independent, quotidiano londinese—che dipinge questa cultura anni ’60-’70 come una forma musicale domestica, avvolta in morbidi maglioni, senza ambizioni: se il rock ha il fuoco nella pancia, il folk ha i muesli ».
Niente di più falso. Perché l’armonia delle canzoni finiva lì, e spariva nelle comuni: quando Bob Dylan si presentò inaspettato al Newport Folk Festival dei figli dei fiori, anno 1965, anche un padre storico del pacifismo folk come Peter Seeger, dovendo dividere la scena, prese un’ascia nel backstage e minacciò gli organizzatori di tagliare i cavi della corrente. C’entrava la gelosia professionale, certo. Ma forse anche qualche oppiaceo: «I folk singer possono sembrare gente mite — è il doppio senso del giornale —, ma è sempre meglio non sottovalutare il potere dei fiori».
Francesco Battistini
da www.corriere.it

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